Dopo il convegno di Cagliari, dopo Matera, Napoli e decine di seminari e dibattiti, le manifestazioni per i sessant'anni dalla morte di Antonio Gramsci non potevano che concludersi a Torino. Solo dalla città della Fiat e dei Consigli operai, è stato detto, poteva prendere avvio la sua riflessione; solo tra queste strade poteva maturare quell'idea di politica, partito e trasformazione, che avrebbe preso forma nei Quaderni. Una città oggi in crisi di identità, investita da processi di ristrutturazione tecnologica che mettono in discussione il ruolo della fabbrica, ma anche dalla dissoluzione di quel capitalismo familiare che da sempre è stato l'ossatura del sistema industriale italiano. Torino luogo ideale, quindi, quasi predestinato, per la verifica degli strumenti interpretativi che Gramsci ci ha fornito, per un loro adeguamento e rilancio.
Il convegno di Torino si è avvalso dell'apporto organizzativo del Partito della Rifondazione comunista. Dopo aver a lungo eluso i nodi fondamentali del dibattito politico-culturale, il Prc può impostare adesso un'analisi e un bilancio di quella storia lunga e complicata nella quale, in un modo o nell'altro, affondano le sue radici. Esiste un'eredità che per tanti aspetti è necessaria, per un partito che vuole contribuire a quell'impresa enorme che sarà la rifondazione del movimento comunista dopo la sconfitta di fine '900. Fare come se nulla fosse accaduto e riprodurre, per abitudine, linguaggi e schemi legati ad una fase determinata; oppure intestardirsi nei tanti alibi con cui l'anima bella difende la propria intatta purezza: sono le strade più facili per evitare ogni processo di autentica rifondazione. Servendosi delle riflessioni di alcuni tra i maggiori studiosi di orientamento marxista attivi nel dibattito internazionale, il Prc decide adesso di fare i conti con Gramsci, compiendo il primo passo verso una rielaborazione critica dell'esperienza che sta alle proprie spalle e verso la conquista di un'autentica cultura politica. Bisogna seguire con attenzione queste novità, vedere se questo partito riuscirà davvero a funzionare come un grande intellettuale collettivo, dimostrando così di aver raccolto nel modo più autentico l'eredità di Gramsci.
Primo obiettivo del convegno era senz'altro una riappropriazione di Gramsci da parte del movimento comunista. Che in questi ultimi tempi si sia svolta una vera battaglia intorno a Gramsci [END PAGE 44] è ormai assodato. Di fronte al tentativo reiterato di assorbirlo entro l'ideologia dominante, facendone un classico della filosofia o del pensiero politico, se non addirittura un teorico della "rivoluzione liberale", si tratta di rivendicarne con intransigenza non solo il comunismo integrale, ma anche il contributo attivo di dirigente rivoluzionario, di fondatore e capo del partito comunista. Ciò impone, però, di confrontarsi in maniera puntuale con quelle deformazioni ideologiche, entrando nel merito e cercando di confutarle sul loro stesso terreno.
Questo confronto è oggi urgente già al livello storiografico e biografico. In questo senso, riappropriarsi di Gramsci significa smontare puntigliosamente, come ha fatto Ruggero Giacomini, un pericoloso revisionismo ormai affermatosi anche a sinistra. Un revisionismo che--per mettere Gramsci in conflitto con la tradizione che egli stesso fonda--costruisce il mito del "martire della democrazia" tradito da Togliatti e "abbandonato in carcere dal suo stesso partito", dando credito a una falsa lettura che già Mussolini aveva cercato di avvalorare. Effettivamente Gramsci vive in carcere momenti di grave sconforto, e in una lettera da Turi confessa alla cognata Tania la paura di essere stato lasciato solo dai compagni. Gramsci stesso però, avverte Giacomini, considera ben poco razionale questa impressione, ed è in grado di legarla al peggioramento del suo stato di salute, dovuto alla durezza del carcere e alla trascuratezza dei sorveglianti, crudele sino al limite dello stillicidio e finalizzata a "piegarlo e portarlo alla rottura col suo partito o alla morte".
Gramsci dunque "è consapevole del terrorismo materiale e morale di cui è vittima". Figura-chiave è qui il giudice istruttore Macis, che finge comprensione e disponibilità per ottenere la sua fiducia, lavorando poi con dubbi e sospetti per indurne il crollo psicologico. Contro la tesi di Aldo Natoli, secondo cui i tentativi dei comunisti francesi e italiani di mobilitare l'opinione pubblica internazionale in favore del compagno avrebbero impedito un ammorbidimento dei fascisti, non si tratta di dare una "rappresentazione idilliaca" dei rapporti fra Gramsci e il partito, ma di comprenderli senza falsarli. Certamente i contrasti e le differenze di valutazione furono notevoli, e non tutti, anche all'interno del carcere, capivano le sue scelte e le sue posizioni. E però, conclude Giacomini, "non ci fu alcun abbandono". Cosí come il partito "capì subito la perdita enorme subìta con la carcerazione di Gramsci", ben sapendo che non avrebbe retto, allo stesso modo questi "mai si sentì spogliato delle sue funzioni di dirigente del partito", ma rimase fino in fondo fedele al proprio ruolo già attraverso la strenua resistenza, consapevole che, in carcere, "vivere è già lottare".
Il confronto ideologico non avviene però solo sul piano storiografico, ma va condotto anche ad un livello interpretativo. È quanto ha fatto Joseph Buttigieg, che ha ripercorso la genesi della categoria di "subalterno" nei Quaderni, denunciando poi l'uso distorto fattone oggi da storici e studiosi di scienze umane. Non c'è dubbio che molte categorie elaborate da Gramsci siano diventate imprescindibili in diversi ambiti di ricerca. "Egemonia", "rivoluzione passiva", "guerra di posizione", "intellettuale organico": sono ormai strumenti necessari per tutti gli studiosi. Essi [END PAGE 45] vengono però utilizzati, per lo più, senza una conoscenza diretta del testo, e dunque del contesto e della finalità che presiedeva alla loro genesi. Gramsci si proponeva, ricorda Buttigieg, di "osservare lo sviluppo delle classi subalterne in relazione ai processi del mondo economico", mostrando come "la marginalità reale si riflette nella (ed è determinata dalla) marginalità nella storiografia", e puntando con ciò stesso ad un superamento di tale condizione. Se il contesto dei conflitti di classe reali che fondano questa categoria viene espunto, il progetto egemonico gramsciano si riduce ad un "agone puramente culturale in storiografia e nelle scienze umane".
Si tratta di estrapolazioni, però, "spesso ben poco innocenti". Buttigieg denuncia il tentativo di utilizzare Gramsci per la costruzione di una teoria politica post-moderna e post-marxista, nella quale "si privilegia la frammentarietà sulla coesione, le alleanze ad hoc sui partiti". Nessun discorso universalistico viene più considerato legittimo: non rimarrebbe che "un proliferare di voci, di identità discorsive irriducibili", riflesso di una miriade di "lotte sociali equivalenti", nelle quali-- espunta la contraddizione capitale/lavoro--gli interessi di tutti i gruppi hanno lo stesso peso corporativo. Ecco allora che, nella generale subordinazione ideologica prodotta dall'offensiva post- moderna, "alcuni intellettuali di sinistra sembrano cercare in Gramsci strategie che garantiscano la sconfitta: lavorano perchè le lotte socio-economiche vengano riassorbite nel quadro liberale".
È quanto accade, spiega Buttigieg, con il concetto-chiave di "società civile". Gramsci affronta questo tema muovendo dalla consapevolezza che in essa "le classi dominanti e i gruppi subalterni non hanno lo stesso status". Essa, dunque, non è il luogo neutrale del confronto delle idee e delle capacità pratiche in condizioni di pari mezzi e opportunità, ma "il luogo dell'egemonia della classe dominante". Chi oggi, convertitosi al liberalismo, vuole utilizzare l'attenzione di Gramsci verso la società civile per celebrare in questa la soluzione di tutte le contraddizioni reali, non può che deformare il suo pensiero. Leggendo Gramsci in modo ideologico e selettivo, molti critici "sotto- enfatizzano la portata delle relazioni disuguali del potere entro la società civile", occultando la funzione che questa svolge per l'egemonia della classe dominante, "ai fini del controllo non coercitivo dei gruppi subalterni". L'interesse di Gramsci verso la società civile, in realtà, si lega alla sua preoccupazione per la marginalità che in essa scontano le classi popolari. L'intento è però chiaro: egli la studia "da un punto di vista critico, dal punto di vista dei gruppi subalterni", indicando la necessità di costruire in essa, attraverso il partito, "un progetto controegemonico" che faccia saltare la subordinazione di classe.
L'aver preso--e restituito--consapevolezza dei tentativi di sottomissione ideologica di Gramsci, della battaglia da condurre e della funzione di questa entro i più generali processi egemonici del mondo intellettuale, è un primo grande merito del convegno. "Le classi dominanti", ha spiegato Antonio A. Santucci, "occultano le verità di fatto al fine di ottenere un consenso indotto che viene spacciato come pubblica adesione". Gramsci ha sempre respinto "il luogo comune della 'politica come menzogna'", e ci ha insegnato che "sulla falsificazione ideologica il movimento [END PAGE 46] operaio non può costruire nulla di duraturo". Se la verità è presupposto ovvio nelle relazioni umane, essa è fondamentale nella azione politica che si rivolge alle masse: qui la "veracitas, intesa in senso kantiano" diventa una vera e propria "linea di condotta" da perseguire ad ogni costo, "quali che siano le conseguenze". La battaglia per Gramsci si presenta in questo senso come una vera "opera di verità" che è al tempo stesso una prosecuzione del suo esempio. Detto questo, però, rimane il problema più urgente: cosa rimane di Gramsci e, dunque, della sua analisi del modo di produzione capitalistico, della società e della politica, della sua teoria dell'organizzazione e del movimento rivoluzionario? Come agisce, sul corpus degli insegnamenti che egli ci ha lasciato, la grande cesura storico-politica di questi ultimi anni, e le grandi trasformazioni sociali e produttive ancora in atto?
Sono temi che emergono sin dalla relazione di apertura di Edoardo Sanguineti. Il "nostro Gramsci", dice questi, è quello "della quistione della egemonia: e dunque "della quistione degli intellettuali, dei produttori di ideologia, degli elaboratori, più o meno organici, delle autocoscienze di classe". Ripercorrendo il Quaderno 11, Sanguineti ricostruisce la teoria del passaggio della coscienza di classe dall'in sè al per sè, evidenziando il movimento di auto-lacerazione con cui, in ogni uomo, si manifesta la contraddizione oggettiva: "il conflitto di classe, e specificamente la lotta per l'egemonia, è un conflitto che attraversa l'individuo, nel quale contrastano una coscienza tradizionale, elaborata dal dominio, e una coscienza organica, che lo collega concretamente, praticamente, alla sua classe". Questa contraddizione deve risolversi, perchè l'azione stessa non sia paralizzata, attraverso una lotta che avviene prima al livello etico e poi a quello politico. È una concreta lotta storica, nella quale si sviluppa--Sanguineti cita lo stesso Gramsci--un' "elaborazione superiore della propria concezione del reale . . . una ulteriore e progressiva autocoscienza in cui teoria e pratica finalmente si unificano". Sanguineti ricorda a questo punto l'importanza degli intellettuali come organizzatori della coscienza e, dunque, del partito come intellettuale di massa e forma reale di tale organizzazione. In questo senso, visto che "l'autocoscienza di classe non viene mai meno da parte della classe dominante", il "nostro Gramsci" è quello del "dovere dell'organizzazione". Il Gramsci che ci insegna la "necessità pratico- teorica di un'adeguata 'autocoscienza critica'", decisiva in un momento storico in cui il concetto stesso di rivoluzione appare in qualche modo "colpevole".
È a questa altezza che la relazione di Sanguineti si fa più provocatoria. Come tradurre concretamente tale esigenza di organizzazione in un processo rivoluzionario adeguato all'epoca della globalizzazione capitalistica, della "massima omogeneità e dis-omogeneità"? "Le rivoluzioni 'contro Il Capitale'", dice Sanguineti, "sono infine fallite". Il compimento della mondializzazione, quella "infrenabilità" del capitalismo colta dallo stesso Marx, impone a questo punto "di riproporre alle radici il problema della rivoluzione, diciamola in questo modo, 'secondo Il Capitale'". Nelle [END PAGE 47] condizioni attuali, "il problema della rivoluzione in Occidente è diventato il problema della rivoluzione come tale", perchè ormai "non c'è più altro che Occidente".
Sanguineti propone l'immagine di un Gramsci che, "'euro-centrico' e 'borghese-centrico'" come Marx, auspica l'"unificazione dell'umanità secondo un conformismo borghese", attendendosi "un universalismo effettuale che pone le condizioni di una rivoluzione 'secondo Il Capitale'". Una replica alla sua relazione arriva da Giuseppe Carlo Marino. Questi ci presenta un Gramsci che, all'inizio degli anni '20, riflette su una sconfitta che sconta per certi aspetti la stessa radicalità di quella che noi oggi viviamo. Spentasi la speranza in una prosecuzione europea dell'Ottobre, il "biennio rosso" agitava le fabbriche e le campagne italiane, mostrando l'incapacità delle tradizionali forze liberali ad affrontare le nuove contraddizioni della società industriale, ma anche l'inadeguatezza dei partiti di massa a gestire ed organizzare il conflitto. Nella crisi del tradizionale blocco di potere, ha intanto buon gioco la propaganda fascista che calvalca la retorica della Grande Guerra, e così ben presto "la rivoluzione imminente si esaurisce e si converte nel suo contrario".
Gramsci in questi anni denuncia l'"immaturità politica della sinistra", e si dedica ad un lavoro di analisi delle classi e delle nuove forme del conflitto. Si concentra così sui processi di disgregazione e frammentazione, che investono le classi subalterne complicando "la morfologia delle forze popolari potenzialmente anticapitalistiche" ed esponendole "alle deviazioni filo-nazionalistiche e bellicistiche". Come oggi il liberalismo divide artificiosamente occupati e disoccupati, vecchi e giovani, garantiti e non garantiti, prosegue Marino, così allora venivano contrapposti operai e contadini, combattenti e non combattenti. Gramsci "vede la portata epocale della crisi e vede l'alternativa reazionaria fascista", data l'incapacità manifesta della sinistra a contrastare questa pericolosa frammentazione. Rifiutando l'opportunismo socialista e il massimalismo rivoluzionario, aveva elaborato la strategia d'avanguardia dei Consigli di fabbrica, nel quadro di una politica di alleanza con i contadini. Marino sottolinea così l'originalità del dirigente sardo rispetto alla tradizione che gli sta alle spalle e, insieme, la sua attenzione a quelle peculiarità nazionali con le quali deve fare i conti il processo rivoluzionario.
Forte di una minuziosa analisi di classe, Gramsci capisce "che in Italia è impossibile e sbagliata una pura imitazione della rivoluzione sovietica". Egli punta così a "un movimento di massa città- campagna". I Consigli erano certamente una realtà urbana: consentivano di sperimentare un diretto controllo della fabbrica unificando soggetti diversi--operai e impiegati, lavoratori con e senza partito, sindacalizzati e non--ponendosi come un "efficace esempio di autogoverno popolare". Essi però non solo spostavano al livello politico la natura economicistico-corporativa delle rivendicazioni operaie ma, come nucleo di "coordinamento di forze e strategie diverse, che supera le fratture e unifica", erano al tempo stesso modello di un'analoga saldatura con il mondo contadino. Gramsci così "fa scandalo" tra i suoi stessi compagni. Superata l'esperienza dei Consigli, le occupazioni delle fabbriche, animate dalla fiammata massimalista, gli appaiono [END PAGE 48] ormai solo "l'inizio della decadenza del movimento operaio". Già a quest'altezza viene sviluppata "una nuova idea del soggetto rivoluzionario e della rivoluzione", che coincide adesso "con il processo stesso che la rende possibile", e cioè la "costruzione di un blocco sociale antagonista". Fondamento del nuovo blocco è la capacità della classe operaia di portare dalla propria parte i contadini e, progressivamente, tutte le classi subalterne, facendo perno sul partito come avanguardia rivoluzionaria e "mente organizzativa di una complessa operazione egemonica e di ricomposizione".
Declinando il leninismo secondo le condizioni della società italiana, Gramsci "pone le basi per saldare comunismo e democrazia". La sua originalità risalta nella sconfitta attuale, conclude Marino, perchè questa "impostazione ai limiti dell'eresia marxista", superando ogni concezione ottocentesca del conflitto, non solo ci aiuta a comprendere i processi di frammentazione cui le trasformazioni produttive sottopongono oggi le classi popolari dei paesi industrializzati, ma è capace di guardare anche al di là dell'Occidente. La sua teoria della rivoluzione parla oggi all'Italia, ma parla-- come ha confermato la relazione di Jaime Massardo sull'attualità di Gramsci in America Latina--anche alle "aree ex-colonizzate del Terzo Mondo, ai paesi sottoposti al dominio imperialista", mostrandosi così in grado di "sopravvivere alle forme storiche determinate del movimento operaio".
Un Gramsci "profondamente nazionale" dunque, e proprio per questo capace di "conferire concretezza al suo 'internazionalismo'", evitando ogni caduta eurocentrica: è anche la lettura di Domenico Losurdo, che proprio nell'analisi della questione nazionale individua l'attualità di Gramsci. Il giovane sardo rifiuta il positivismo dei socialisti e il meridionalismo di Salvemini: egualmente inclini ad una naturalizzazione delle differenze sociali e di classe, essi finiscono per dividere l'Italia "in nordici e sudici", rendendo impossibile "l'unità del blocco sociale popolare e l'unità della nazione", impedendo la saldatura tra operai e contadini, Nord e Sud. Allo stesso modo, Gramsci respinge il falso internazionalismo dell'Intesa, l'imperialismo dipinto da "interventismo democratico", mostrandosi "consapevole della centralità della questione nazionale, sia in relazione alle colonie (di cui appoggia le aspirazioni all'indipendenza), sia in rapporto all'Europa".
L'attenzione di Gramsci alla questione nazionale, la sua analisi dei limiti del Risorgimento come "rivoluzione passiva", la connessione tra autodeterminazione nazionale e processo di trasformazione socialista, mostrano ancora oggi la loro validità. All'interno del nostro paese, ad esempio, "la mancata soluzione della questione meridionale stimola le tendenze separatiste e mette in pericolo l'unità nazionale e i risultati della rivoluzione risorgimentale". Se guardiamo agli avvenimenti che hanno determinato il crollo del campo socialista, poi, ci accorgiamo che proprio alla questione nazionale si è legata, nel bene e nel male, la sorte del progetto rivoluzionario. Questo entra in crisi laddove "la rivoluzione non è riuscita a divenire nazionale e popolare, dove il [END PAGE 49] socialismo era il risultato di una sorta di esportazione", mentre resiste, pur nel feroce accerchiamento, laddove--a Cuba, in Cina, in Vietnam--i partiti comunisti "sono riusciti a fondere in un tutto indissolubile la causa della rivoluzione e la causa della nazione'. Sia il ciclo rivoluzionario francese che quello aperto dall'Ottobre russo hanno assimilato e per certi aspetti fondato l'idea di nazione. A rivendicare l'internazionalismo sono invece oggi, sulla scia dell'Intesa, i fautori di quella globalizzazione che occulta l'interventismo imperialista occidentale e statunitense. "Autentico internazionalismo" significa dunque, oggi "come ai tempi di Gramsci", cogliere "l'intreccio indissolubile tra consapevolezza della questione nazionale e impegno internazionalista", rinunciando all'esportazione astratta di un modello di trasformazione pensato per i punti alti dello sviluppo capitalistico.
Il confronto tra le relazioni si concentra a questo punto sull'interpretazione delle crisi capitalistiche e delle trasformazioni produttive. Il convegno entra così nel vivo, perchè si tratta adesso di verificare se le indicazioni metodologiche fornite da Gramsci consentano una lettura della crisi attuale e forniscano una piattaforma teorica capace di orientare ancora oggi un'effficace prassi politica comunista. Jean-Pierre Potier ci riporta così ad una situazione per certi versi analoga a quella del presente, ripercorrendo l'analisi gramsciana della grande crisi degli anni '30. Contro le interpretazioni liberali come quella di Einaudi, che vedevano la crisi come fenomeno congiunturale, Gramsci capisce che si tratta invece di una "crisi organica", risultato di un "processo complesso" che rifiuta una "spiegazione monocausale". Inserendosi nel dibattito economico di quegli anni, egli respinge sia la lettura di Giovanni Agnelli (che pure, leggendo la crisi in chiave di sottoconsumo e disoccupazione tecnologica, auspicava interventi di riduzione d'orario e aumenti salariali), sia quella di Jannaccone (che al contrario, vedendovi la rottura dell'equilibrio dinamico tra consumo e risparmio, chiedeva politiche deflazionistiche di bassi salari). Gramsci sottolinea piuttosto, in quella fase, "lo sviluppo di elementi parassitari che ipotecavano lo sviluppo produttivo". Se in Italia ancora troppo forte era il peso della rendita fondiaria, in Inghilterra svolgevano un ruolo preminente, rispetto a quelle industriali, le attività commerciali e di servizio. Questo genere di attività improduttive era invece ridotto al minimo negli Stati Uniti. Qui "il fordismo fondava un'organizzazione sociale razionale, sottomettendo alla produzione sia il commercio che la distribuzione e i servizi", e però il paese-guida della razionalizzazione produttiva risultava pericolosamente esposto al "parassitismo di borsa".
Giungiamo così al momento nodale del convegno, la lettura gramsciana del fordismo e, dunque, la riattivazione delle sue categorie ai fini di una lettura del cosiddetto "post-fordismo". Secondo Adalberto Minucci, l'analisi gramsciana dell'americanismo "rompe gli schemi della III Internazionale" che, muovendo da una lettura rigida di Marx, "negavano capacità di sviluppo tecnologico e innovazione a un capitalismo visto come ormai putrescente". Gramsci riesce a cogliere la profonda novità dell'organizzazione fordista del lavoro, capace di minimizzare le spese [END PAGE 50] legando la crescita economica non "all'aumento della composizione organica del capitale ma all'innovazione organizzativa e tecnologica". Se negli Stati Uniti la razionalizzazione del lavoro aveva condotto ad un crescente corporativismo, in Italia proprio gli operai "sono stati i portatori delle nuove e più moderne esigenze industriali", e i loro sforzi di elaborare una più adeguata organizzazione sindacale sono stati stroncati da un padronato incapace di capire le loro istanze innovative. Non meno gravi sono state però le colpe della sinistra politica che, ancora legata all'impostazione terzinternazionalista, mostra "diffidenza e rifiuto verso le innovazioni" e, non cogliendo le trasformazioni che l'industria italiana stava attraversando, si rivela incapace di "affrontare la radicalità della crisi". Gramsci ci insegna dunque--e ciò vale anzitutto per la crisi attuale--che "gli elementi di flessibilità" liberati nelle "transizioni interne" non vanno lasciati al "controllo del capitale" ma piuttosto "gestiti per saldare operai e tecnici, per sviluppare competenze che consentano un'autogestione della fabbrica".
Il tema è qui decisivo e lo stesso segretario del Prc, Fausto Bertinotti, interviene nel merito. Bertinotti sottilinea la "feconda ambiguità" di Gramsci che, di fronte all'alternativa tra l'inerte contemplazione protestataria dei processi capitalistici e il pericolo della subordinazione apologetica alla modernizzazione, non può non rischiare e mettersi in gioco, spingendosi--lui "uomo di parte, tutto interno alla costruzione teorica marxista"--fino ai "territori-limite dell'avversario", senza paura di affrontare questioni decisive come "i rapporti di produzione, la modernizzazione, la razionalizzazione capitalistica". Se la nuova fase dello sviluppo capitalistico impone una generale ridefinizione di tutte le categorie interpretative, Gramsci allora è davvero utile in quanto "ha qualcosa da dirci proprio rispetto a questo processo di ricostruzione". Bertinotti sottolinea però la difficoltà di tale operazione, dovuta alle condizioni radicalmente mutate che segnano la situazione storica presente, definita dai due grandi "eventi" della globalizzazione e della sconfitta del campo socialista. L'attuale ciclo produttivo si presenta del tutto diverso da quello precedente. "Il ciclo fordista-taylorista", dice, pur tra grandi tragedie come le guerre mondiali e il nazi-fascismo, "conteneva nella fase matura del secondo dopoguerra anche un'ipotesi progressiva". Al contrario, "l'attuale processo di modernizzazione porta in sè una vocazione--l'assolutizzazione della competitività delle merci, la mercificazione completa dei rapporti umani e dell'uomo stesso--che implica l'affermazione di una tendenza regressiva già sul piano della civiltà". Non è possibile dunque una riproposizione letterale dell'analisi gramsciana del fordismo: assolutamente vitale è, piuttosto, riattualizzare il suo metodo di studio per approfondire il carattere di radicale novità della fase attuale.
La tematica del fordismo viene sviluppata anche da Alberto Burgio. Contestando la critica di subalternità mosssa a Gramsci da Bruno Trentin, Burgio chiarisce i termini del giudizio positivo di Gramsci sulle razionalizzazioni produttive improntate al cosiddetto "americanismo". Gramsci coglie il funzionamento "disumanizzante" della fabbrica fordista rispetto alla tradizionale [END PAGE 51] produzione artigianale, e però questa considerazione non si risolve in una condanna delle innovazioni ma piuttosto nell'affermazione della "maggiore razionalità" che le anima, in quanto "produzione di massa destinata a mercati tendenzialmente universali". Gramsci individua nella produzione standardizzata, capace di unificare l'umanità intera rispondendo ai suoi bisogni e al tempo stesso riplasmandoli, una "dimensione sociale oggettivamente contrastante al suo uso capitalistico". Persino negli aspetti più alienanti della fabbrica fordista, come la divisione del ciclo in una serie di movimenti ripetitivi, egli rinviene, sottolinea Burgio, un elemento progressivo che va considerato "presupposto decisivo ai fini del rivolgimento rivoluzionario", addirittura una "oggettiva potenzialità emancipativa". Auspicando la generalizzazione del fordismo, e dunque del nuovo "tipo umano" da esso prodotto, Gramsci tiene infatti sempre presente la lezione della dialettica hegeliana ed è in grado di distinguere "tra l'elemento oggettivamente razionale immanente nei nuovi sistemi di fabbrica e la loro applicazione irrazionale, connessa agli interessi della classe dominante".
Rifiutando ogni deriva antimodernista, si tratta dunque di preparare la trasformazione proprio agendo su questa distinzione, attraverso una "negazione determinata" che separi "gli aspetti regressivi e le potenzialità emancipative della 'razionalizzazione' taylorista" e consenta un diverso "uso sociale" della fabbrica. Quando l'operaio prende coscienza dei processi prima solo subìti, e capisce che proprio nella segmentazione del ciclo, nella parcellizzazione del lavoro e negli automatismi che ciò gli impone si fonda la sua partecipazione organica al lavoratore collettivo, ecco che la sua soggettività si trasforma. Questa "presa di coscienza" è già come tale un "salto di qualità" che attiva un processo di "ricomposizione" e "autodeterminazione integrale", investendo l'intera umanità. A questo punto, la stessa attività produttiva assume una nuova "funzione sociale nel contesto di una comunità in grado di autogovernarsi". La nuova consapevolezza rompe l'"eteronomia" capitalistica del lavoro e consente di "orientarlo al soddisfacimento effettivo dei bisogni sociali". Ecco allora che l'analisi gramsciana degli elementi di razionalità del fordismo ci aiuta a comprendere le trasformazioni attuali, la natura oggettiva di quei processi "correntemente riassunti sotto la rubrica 'crisi del fordismo'", nei quali lo smantellamento della fabbrica è al tempo stesso un massiccio attacco capitalistico alla "potenzialità ricompositiva dell'attività produttiva taylorizzata".
Nella sua relazione, Minucci aveva introdotto anche la questione della transizione al socialismo in condizioni di elevato sviluppo industriale, e cioè il tema eponimo della "rivoluzione in Occidente". Si tratta dell'ultimo grande argomento affrontato dal convegno. Minucci aveva criticato l'incapacità del movimento operaio di affrontare la transizione "in termini di democrazia", e aveva presentato un Gramsci che, attraverso la critica dell'Urss, si era reso consapevole della "necessità del pluralismo politico" e si era sforzato di pensare, nell'esperienza dei Consigli, una forma di "democrazia di tipo nuovo", più attenta alle istanze di autogoverno della società civile che al ruolo [END PAGE 52] del partito. Diverso è stato il modo in cui questo tema è stato trattato da altri relatori, che hanno approfondito il concetto di "guerra di posizione".
"La necessità di superare il liberalismo" e le sue priorità politiche era per Gramsci assolutamente evidente, ha spiegato Francesco M. Biscione. In quel periodo storico, infatti, "il problema non era se superare lo Stato liberale, ma come superarlo", evitando una risoluzione di destra della crisi della democrazia. Se Marx ed Engels hanno delineato "le leggi del modo di produzione capitalistico", ha spiegato Hans Heinz Holz, con il '900 si è imposto il problema della "elaborazione teorica della lotta politica, dell'organizzazione, della formazione della coscienza rivoluzionaria": un impegno portato a termine da Lenin. Dopo il '17 e il fallimento del tentativo di suscitare una rivoluzione in Occidente, la riflessione marxista si concentra su due questioni: "una teoria della costruzione del socialismo in un paese non sviluppato, e una strategia rivoluzionaria mondiale capace di appoggiare l'Urss". Di fronte al compito decisivo di ripensare dal principio le condizioni della lotta di classe, Gramsci assolve al ruolo storico di "elaborare le linee portanti della strategia comunista in una società capitalistica avanzata". Attraverso i concetti di "egemonia" e "guerra di posizione", egli supera ogni concezione quarantottesca della transizione e "dà un senso nuovo all'idea di rivoluzione permanente".
La genesi di questa nuova strategia rivoluzionaria è stata ricostruita da Jacques Texier. È in seguito a gravi sconfitte, spiega questi, che Gramsci teorizza la "guerra di posizione": fallimento della rivoluzione in Occidente, disfatta del movimento operaio e della democrazia di fronte al fascismo, impreparazione totale rispetto alla ristrutturazione fordista (quel metodo "americano" con cui la borghesia "conquista l'egemonia sul terreno della produzione, senza far ricorso al fascismo"). Già in Engels, però, emerge un tema estremamente simile. Nell'Introduzione del 1895 alle Lotte di classe in Francia, Engels liquidava ogni residuo di blanquismo, dichiarando ormai improponibile il modello rivoluzionario quarantottesco. Per l'ultimo Engels, continua Texier, già nel biennio '48- '50 una trasformazione comunista attraverso un immediato e violento rivolgimento politico-sociale sarebbe stata impossibile. Per ragioni strutturali legate ad uno sviluppo economico ancora immaturo del continente europeo, oltre che per l'accresciuto potenziale di deterrenza monopolizzato nello Stato borghese, si impone ormai "una lotta durissima, che progredisce di posizione in posizione". La migliore interpretazione di questa intuizione è fornita proprio da Gramsci, che nei Quaderni sviluppa la teoria del passaggio dalla guerra di movimento alla guerra di posizione anche attraverso una rivisitazione della Rivoluzione francese, letta adesso come un lento processo che attraversa tutto il XIX secolo sino al 1871.
Ma fonte altrettanto primaria della riflessione gramsciana sulla transizione è senz'altro l'Ottobre. L'approfondimento dell'esperienza leninista è per Gramsci decisivo sul piano teorico. Già Antonio A. Santucci aveva ricordato le critiche di Gramsci al meccanicismo delle "Tesi di Roma". Lí "le verità teoriche erano staccate dalla pratica, dalla storia, e finivano per ridursi così a [END PAGE 53] verità generali astratte". Approfondendo le concrete vicende storiche russe, Gramsci capirà poi, secondo Georges Labica, che "le forme della transizione non obbediscono a nessuna norma rigida", e si accorgerà che storicamente "le rivoluzioni sono avvenute in vari modi". La "via maggiore" indicata da Marx ed Engels non è dunque esaustiva. I bolscevichi, che "hanno rovesciato i canoni del materialismo storico", sono ad un tempo non-marxisti, perchè "hanno tradito Il Capitale", e marxisti autentici, perchè "fedeli allo spirito di Marx, hanno liberato il marxismo da ogni incrostazione positivistica".
Se lo stesso Gobetti--per non parlare di Croce--interpreta il '17 come un evento tutto "orientale", Gramsci dunque, spiega Andrea Catone, si dimostra più attento alla concretezza storica. L'Ottobre non è "la presa del palazzo d'Inverno", un putsch violento che nulla ha da dire in una situazione in cui, come in Occidente, la transizione è complicata dal grande sviluppo della società civile. Esso è invece solo una tappa, "un momento all'interno di una guerra che attraversa fasi diverse". Lungi dal contrapporre Oriente e Occidente, Gramsci distingue piuttosto "centro", "periferia" e "semiperiferia" del mondo capitalistico. In questo senso, l'Italia deve prestare attenzione alle vicende della Russia, un paese che presenta affinità di struttura e nel quale decisiva si è dimostrata l'alleanza tra operai e contadini. È qui che Gramsci approfondisce la distinzione tra "guerra di movimento" e "guerra di posizione". Se nel '17 le condizioni storiche impongono ai bolscevichi una manovra rapida e violenta, già nel '21 Lenin, a differenza di Trotskij, capisce che è il momento di passare ad una diversa forma di guerra. Una guerra però "non meno totale", per la quale è necessario costituire "un soggetto rivoluzionario ancora più forte, un fronte totalmente compatto e senza divisioni". In questo senso, come ha sottolineato Gianni Alasia, i Consigli operai, pensati da Gramsci sul modello dei soviet come "strumento di partecipazione e non di delega", non possono essere assimilati alle forme della democrazia pluralista borghese. Che indicazioni trarre dalla riflessione gramsciana sulla transizione, in vista di una strategia politica comunista adeguata all'epoca del capitalismo mondializzato? Un primo tentativo di conclusione e bilancio è impostato--nei limiti del possibile--da Raul Mordenti, che affronta senza mezzi termini il tema della rivoluzione. La giusta avversione di Togliatti alla retorica rivoluzionaria, dice Mordenti, ha finito involontariamente per bloccare ogni discussione collettiva sulla trasformazione, consolidando una concezione "primitiva e rozza". Oggi, nelle condizioni della nuova fase storica, "è necessario ricominciare a parlarne', ricordando anzitutto che "comunista è chi si pone il problema della fuoriuscita dal capitalismo e dal suo Stato". Detto questo, è innegabile il deficit teorico-politico con cui i comunisti affrontano oggi questo compito: "non siamo ancora in grado di articolare un discorso credibile intorno alla rivoluzione e neppure, a ben vedere, osiamo 'pensarla', cioè farne oggetto di indagine e dibattito". È proprio qui che si conferma attuale e imprescindibile l'insegnamento di Gramsci. Questi ci trasmette non solo un metodo di lavoro politico e intellettuale che impone di prestare sempre attenzione alle forme di coscienza delle masse, [END PAGE 54] ma soprattutto il modello di un dirigente politico che non fa che "pensare e progettare la rivoluzione comunista in Italia". Per il Gramsci che rompe con il blanquismo, dice Mordenti, "la rivoluzione non è kairòs, attimo irripetibile, nè chronos, il tempo dell'omogeneità consequenziale, ma piuttosto epoca, éra, un processo dai tempi lunghi". Da qui l'idea della "guerra di posizione", che avanza di casamatta in casamatta, "come una sorta di barriera corallina, che si costruisce sotterraneamente, molecolarmente". Associandosi e unificandosi nel partito, le classi subalterne occupano con la loro storia la società civile e così "riescono a raggiungere la dimensione politica e a farsi Stato".
Da qui le enormi difficoltà che ci attendono. "Lo Stato di oggi", continua Mordenti, "è senza centro e senza confini". Porsi il problema di una sua conquista che non si risolva in un'operazione politicistica, che non imprigioni entro i limiti di questo Stato, come è accaduto infine al Pci, impone di sviluppare "un'opera di democratizzazione della società civile, di organizzazione diffusa dell'antagonismo". Un processo lento e di lunga durata, ma "che inizia subito, già prima della conquista del potere". Non c'è in questo senso un prima e un dopo: si tratta di realizzare "un dualismo di poteri di lunghissimo periodo". Ecco allora che, ereditando nel migliore dei modi gli insegnamenti di un'intera tradizione, e cercando così di spingerci con Marx, Gramsci e Lenin oltre Marx, Gramsci e Lenin, "noi oggi possiamo cominciare a pensare e progettare la rivoluzione, la nostra utopia concreta, ciò che ci rende comunisti".