«Il comunismo può essere inteso solo come compimento della modernità. E' solo in questo senso che si può parlare di "socialismo critico" ovvero di "comunismo critico"»: la chiave di lettura che Domenico Losurdo utilizza per ricostruire l'evoluzione intellettuale e politica di Antonio Gramsci (Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico» - Gamberetti, Roma 1997, pp. 259, £ 29.000), è al tempo stesso una presa di posizione entro quella vera e propria battaglia delle interpretazioni che si sta svolgendo intorno alla figura del grande rivoluzionario, a sessant'anni dalla morte. Una battaglia nella quale finiscono per entrare in gioco, inevitabilmente, gli assetti egemonici del mondo culturale italiano dei nostri giorni.
Di fronte al rancoroso rifiuto cattolico della modernità, così radicato nel provincialismo di una cultura cresciuta all'ombra del Sillabo, di fronte al rozzo evoluzionismo meccanicistico delle stesse forze socialiste, il giovane Gramsci non può, agli esordi, che confrontarsi con il liberalismo. Di gran lunga più avanzati gli appaiono - rispetto alla difesa del diritto divino contro lo Stato e rispetto alla subalternità del riformismo al positivismo borghese - Croce e anche Gentile, nei quali egli saluta la continuazione della lezione di Hegel, e dunque il riconoscimento della legittimità del moderno (nonché, per l'Italia, del Risorgimento) contro le forze della reazione.
La fedeltà ad una rigorosa prospettiva storica salva i due filosofi neo-idealisti dal greve naturalismo che legge la Prima guerra mondiale come scontro di razze, o da una sua trasfigurazione come "guerra di fedi". E però, proprio in Croce e Gentile trovano conferma i limiti di una tradizione liberale costitutivamente incapace di andare oltre la propria parzialità, e che continua quindi a considerare le classi subalterne come una «moltitudine bambina», buona tutt'al più come pedina delle élites nella guerra tra le nazioni. E' a partire da qui che Gramsci, rinunciando ad una condanna apocalittica della storia della borghesia, si impegna in un bilancio critico nel quale il comunismo si configura come l'erede consapevole dei punti alti della tradizione liberale. Come il movimento nel quale l'organizzazione autonoma delle masse travolge ogni clausola d'esclusione (verso le classi lavoratrici o i popoli dei paesi coloniali) e porta a reale compimento quel processo di costruzione dei diritti universali dell'uomo lasciato a metà dalla borghesia stessa.
Proprio questa impostazione del problema della trasformazione, che corrobora l'analisi della situazione concreta con il metodo della dialettica hegeliana, consente a Gramsci di riconoscere subito la legittimità della rivoluzione di Lenin, la «rivoluzione contro Il capitale» che manda per aria le codificazioni meccanicistiche ed economicistiche del marxismo. Gli consente inoltre - distinguendolo da tutto il marxismo occidentale - di non dissolvere l'idea del comunismo nell'attesa messianica della palingenesi sociale, della fine di ogni conflitto, della nascita dell'"uomo nuovo".
Nella riflessione sulla «società regolata», istanze quali la questione nazionale e religiosa, o la forma dello Stato e del mercato socialista, lungi dall'essere astrattamente liquidate, trovano la loro giusta dimensione come problemi costitutivi di una democrazia reale. Proprio il profondo senso storico di un pensatore in grado di porre (in anticipo su tutti) questo genere di problemi, conclude Losurdo, deve esserci oggi di aiuto per un bilancio che sappia affrontare in maniera critica le complesse vicende del Novecento, senza pretendere di ridurle ad «un nuovo capitolo di teratologia».