International Gramsci Society Newsletter
Number 6 (August, 1996): 29-31 < prev | toc | next >  

Lettere dal carcere, un classico del Novecento

Guido Liguori

Fiori, Maraini, Rossanda e Santarelli sul libro di Gramsci

"Gramsci ha rotto con Togliatti, nel 1926, dopo lo scambio epistolare sulla lotta ai vertici del partito comunista russo. Ma Togliatti (e il Pcd'I) non hanno rotto con Gramsci, non lo hanno mai abbandonato." Lo ha detto Giuseppe Fiori, il più importante biografo di Gramsci, in occasione della presentazione (organizzata lunedì 24 giugno a Roma a cura della neonata "sezione italiana" della International Gramsci Society) delle Lettere dal carcere, curate da Antonio Santucci e edite dalla Sellerio.

La tesi di Fiori non è nuova. Ma non fa male ribadirla, dal momento che ha di nuovo preso piede quest'anno, negli scorsi mesi, quella che Fiori ha definito una "rubrica fissa" dei quotidiani italiani, intitolata Gramsci lasciato morire in carcere da Togliatti, che ha avuto ancora una volta in Giuseppe Tamburrano il suo ossessivo banditore.

La edizione Sellerio delle Lettere gramsciane è stata, come è noto, al centro di una violenta polemica, soprattutto per questioni economico-commerciali, legate allo sfruttamento dei diritti. Ora che una sentenza del Tribunale di Palermo ha sgombrato il campo dal problema, riconoscendo la legittimità dell'edizione in questione, resta l'altra obiezione che è stata avanzata al lavoro di Santucci: vale la pena pubbblicare, far circolare e leggere le lettere di Gramsci nella loro forma più nota, senza cioè incastonarle in un più ampio (forse troppo ampio) epistolario che comprenda, con i testi gramsciani, anche le missive dei suoi interlocutori, diretti (i soli parenti avevano diritto di corrispondere col recluso) o indiretti (Sraffa e Togliatti)?

La risposta di tutti gli intervenuti al dibattito della IGS Italia (oltre a Fiori, Dacia Maraini, Rossana Rossanda, Enzo Santarelli, coordinati da Valentino Gerratana), è stata affermativa. Perché comunque le Lettere dal carcere sono, come recitava il titolo dell'incontro, "un classico italiano del Novecento." Ha sintetizzato con partecipata penetrazione Dacia Maraini: "Nelle Lettere c'è la vita, il carattere, gli umori, il pensiero di Gramsci. Una persona che conosce l'arte della scrittura e che tramite essa documenta--come in un romanzo--il processo drammatico della propria distruzione, quella che Gramsci ha definito la propria afasia psichica." La scrittura, dunque, come forma di sopravvivenza, come strategia per sopravvivere, cui Gramsci si aggrappa benchè essa gli provochi persino dolore fisico. "Quando Gramsci non ha più voglia di scrivere--ha concluso Maraini-- Gramsci è vinto: l'assassinio è compiuto." Ma rimangono le Lettere, "testimonianza di vita, certo, ma anche di scrittura." [END PAGE 29]

Questo libro--ha rincarato la dose Fiori--è un classico autonomo, fa parte della letteratura mondiale. Se paragonato ad altri epistolari, l'epistolario gramsciano dimostra subito di avere una cadenza, uno stile, una unitarietà che agli altri manca. Per questo le Lettere sono un classico autonomo, fanno parte della letteratura mondiale, hanno alto valore letterario. Ma Fiori si è dilungato soprattutto sulla famosa lettera di Grieco del '28, dimostrando come essa fosse ininfluente per la condanna di Gramsci, ricordando la figura del giudice Macis e della sua opera di provocazione (su cui costruì una brillante carriera, rilanciata dalla sua partecipazione alla . . . guerra partigiana!). E ricordando i numerosi tentativi di liberazione (mediante scambio di prigionieri) tentati dal Pci e dal Comintern, e falliti per la personale opposizione di Mussolini alla liberazione di Gramsci.

Contro la Macciocchi, che negli scorsi giorni aveva accumunato, come carnefici di Gramsci, "Stalin, Togliatti e Mussolini", si era anche argomentatamente dichiarato Santarelli. Che non ha neanche mancato di ricordare le strumentalità con cui, a sinistra, segnatamente da parte dei sostenitori della "svolta della Bolognina", Gramsci era stato definito, nel 1991, il primo revisionista e il maggiore dissidente del Pci: una disinvoltura ermeneutica che, calpestando ogni serietà storiografica, spalanca le porte ad ogni operazione "anti-stalinista", del tipo di quelle portate avanti da Tamburrano e Macciocchi.

I rapporti tra Gramsci e il Pci sono stati richiamati anche da Rossana Rossanda. Che si è detta d'accordo con Fiori sul fatto che sia assurdo pensare a una cospirazione comunista per far condannare Gramsci e tenerlo rinchiuso in carcere. Del resto, Scoccimarro e Terracini non avevano essi stessi ricevuto lettere da Grieco, nel '28, senza vedervi alcuna intenzione perversa? E tuttavia resta la domanda: perchè Gramsci crede al giudice Macis? Rossanda ha ricostruito lo scontro tra Gramsci e Togliatti del 1926, a proposito della lotta interna al partito comunista russo, e ha rievocato una sua conversazione con Togliatti. Di fronte alla sua affermazione: "Gramsci aveva ragione", il segretario del Pci le aveva risposto: "No, Gramsci aveva torto. Le uniche possibilità per il socialismo, nel 1926, stavano nelle mani dei comunisti russi e non era possibile fare altrimenti. Ma Gramsci aveva una sua immensa fermezza morale: se non fosse finito in galera, non avrebbe ceduto di fronte alle posizioni dei sovietici!"

Come sarebbe finita? Non c'è risposta a questa domanda. Né a quelle, che Rossanda ci pone e si pone, su cosa pensasse Gramsci negli ultiimi mesi di vita, nel 1936, quando già si era scatenata la più feroce repressione stalinista (l'omicidio di Kirov è del '34): il comunista sardo nella clinica di Roma in cui era ricoverato non aveva più bisogno di scrivere, riceveva le visite di Tania e di Sraffa, con loro parlava. Ma l'amico più fedele e la donna che a lui tutta se stessa aveva sacrificato se ne sono andati senza dire nulla dei suoi giudizi sull'Internazionale, sullo stalinismo, su quanto accadeva a Mosca. Gli archivi russi daranno un giorno qualche risposta sui rapporti tra Gramsci e i suoi compagni comunisti, italiani e non? [END PAGE 30]

I due classici della letteratura italiana per antonomasia sono La divina commedia e I promessi sposi. Senza entrare nella valutazione di queste due opere (peraltro non disponibili su uno stesso piano, come Gramsci ben sapeva), vogliamo porre una questione: verrà il tempo in cui sarà Gramsci ad essere universalmente considerato il classico italiano per eccellenza, da tutti conosciuto e citato, letto e studiato a scuola? Pensino, intanto, i ministri della cultura e della pubblica istruzione, che hanno fatto parte del partito che fu di Gramsci, a porsi il problema di fare di questo autore (e di questo libro) uno degli esempi-chiave per le giovani generazioni e per tutti i cittadini. Non per amore di partito. Ma per il contributo incomparabile che ancora Gramsci può dare alla cultura italiana e mondiale.

(da Cominform, n. 31, 1996)   ^ return to top ^