Ho conosciuto Valentino Gerratana quasi esattamente otto anni fa, nell'inverno 90-91, nel suo ufficio all'Istituto Gramsci, nella vecchia sede di Via del Seminario. A quel tempo studiavo filosofia all'università, leggevo con passione Gramsci, e avevo appena scritto un lungo saggio su Gramsci e Lenin. Giorgio Baratta, che sarebbe poi stato il mio relatore di laurea, lo mostrò a Valentino. Gli piacque e volle conoscermi. L'incontro avvenne, come detto, nel suo ufficio al Gramsci: una stanza molto sobria; solo tanti libri negli scaffali e, in uno di questi, l'oggetto del desiderio: la serie completa dei quaderni gramsciani, ben rilegati e ordinati; in fotocopia, ovviamente, ma a me bastava. Tra di noi, una scrivania ingombra di libri, un telefono, della corrispondenza. Valentino mi colpì subito per la sua essenzialità, e anche per una certa scabrosità o ruvidezza, che poi mi si è rivelata per un misto di pudore e di amore della franchezza -- e della verità, sopratutto. L'amore della verità era del resto l'elemento che avevo imparato ad apprezzare proprio in Gramsci negli anni precedenti, quelli della lettura liceale -- volenterosa e disordinata -- dei Quaderni. Ricordo ancora la delusione provata di fronte al Machiavelli dell'edizione Togliatti-Platone, in cui io avevo cercato un'argomentazione organica, e dove invece trovai una ricca ma disorientante miscellanea. E ricordo anche l'emozione provata, l'anno successivo, alla lettura dell'edizione Gerratana, in cui quella 'miscellanea' mi si squadernava dinanzi, acquisendo finalmente una forma e un ordine, l'unico possibile: quello temporale, quello del concreto lavoro di Gramsci nel suo farsi. La materialità: era questa la prima, imprescindibile 'verità' che il ricercatore doveva rintracciare nei Quaderni, condizione di ogni altra verità possibile: politica, storica, filosofica... Questa era la tesi argomentata, in modo esemplare, nella «Prefazione» che Gerratana aveva preposto alla sua fatica, e che resta secondo me un modello anche dal punto di vista strettamente stilistico. Quella «Prefazione» (che l'autore ha ristampato nel suo prezioso Gramsci. Problemi di metodo, Editori Riuniti 1997) è oggi ben lungi dall'aver esaurito tutte le sue potenzialità di rottura (risale al 1975!) rispetto al modo dominante di leggere i Quaderni, modo a cui viene piegata la stessa edizione critica, quando la si prende come un contenitore da cui pescare qua e là, alla ricerca di una qualche organica e compiuta 'teoria'.
Ai miei anni universitari risale la lettura di altri testi di Gerratana, in particolare delle Ricerche di storia del marxismo, del 1972, con la scoperta di un Lenin senza 'ismi', molto vicino a Gramsci, in particolare per il fatto di essere, come lui, tutto preso dentro alla difficoltà di quadrare il cerchio della storia (dell'esperienza) e della teoria (della verità), per mezzo di quell'atto creativo che si chiama 'politica'; o più precisamente: per mezzo di quell'atto che è e resta veramente 'creativo' (cioè trasformatore, rivoluzionario) solo se riesce a evitare sia di ridursi a mera 'conferma' della teoria, sia di impadronirsi di questa, rendendosela 'ancella'. Lenin e Gramsci, ci mostra Gerratana, sono riusciti a tenersi all'altezza di questo compito, insieme a pochi altri, come Labriola...
Quando conobbi Valentino, nel suo ufficio al Gramsci, egli era per me dunque già da tempo un punto di riferimento essenziale, non perché comunicasse un qualche più o meno compiuto sistema di pensiero, ma perché -- cosa molto più preziosa -- indicava un compito, delle vie da percorrere o da schiudere, e insieme rendeva disponibile per via esemplare un metodo di ricerca. Questo metodo non saprei indicarlo né con due né con cento parole (o forse con una solamente, gramsciana: verità); so però che si traduce in una scrittura limpida, priva di quei compiacenti segnali autoreferenziali e narcisistici di cui sono piene altre pagine e altre scritture; una prosa completamente rivolta alla cosa stessa e perciò, quando occorre, tagliente (ma mai violenta) ed espressiva; uno stile piano ma difficile, di una difficoltà e non-evidenza che sono nelle 'cose' e non nel modo di dirle.
Da quel primo incontro a oggi molte cose sono accadute nel mondo grande e terribile della storia, e anche in quello piccolo e, a suo modo, non meno terribile, del quotidiano: la distruzione del Pci, la liquidazione dell'Unione Sovietica, e via via tutto il 'nuovo' così vecchio che abbiamo sotto gli occhi; ma anche, per Valentino, lutti famigliari dolorosi, a cui egli ha saputo reagire con una forza che non riesco a
qualificare, a etichettare in nessun modo. Il mondo, si dice, è cambiato, ed è vero; ma provate a leggere una pagina scritta da Valentino venti o trent'anni fa: di essa si può dire solo che 'gridava cose giuste', e che proprio per questa ragione le grida e le può gridare tali e quali ancora oggi. Oggi anzi ne abbiamo bisogno ancora più di ieri. Cessate non solo le mode, ma anche la ragion d'essere di tutti i vari opportunismi, crollato insomma il castello, restano allo scoperto le fondamenta, quelle vere, quelle che non passano, e di esse c'è oggi vitale bisogno affinché una situazione a suo modo ricca di tante potenzialità per l'idea comunista, non si risolva -- per l'incapacità o la non volontà di trovare le parole adatte -- in una perdita netta in termini di coscienza e di conoscenza. Valentino, del resto, non ha taciuto, nel corso degli anni Novanta, ed è anzi intervenuto più volte nel corpo vivo di questo mondo del 'post-ottantanove'. Mi limito a ricordare la sua presa di posizione nel dibattito sui destini del Pci («Laicità e comunismo», in Critica marxista, 1990, n. 1), mirabile dimostrazione della malafede etico-politica di chi si faceva schermo delle parole per liquidare sottobanco un'intera eredità storica; il saggio «Sulla 'classicità' di Gramsci», del 1992 (ora ristampato nel volume del 1997), un piccolo gioiello, di cui voglio citare solo le parole conclusive: «La polemica contro le nuove forme di lorianismo, in difesa della cultura necessaria a rafforzare gli argini della civiltà moderna, porta [...] a rivalutare l'insofferenza gramsciana per la mancanza di sobrietà e di ordine intellettuale, e può forse diventare la pietra di paragone di un nuovo dialogo con Gramsci»; infine, la comunicazione al convegno urbinate su Lenin del 1994, dal titolo, significativo e augurale, «Sul futuro di Lenin» (in Lenin e il Novecento, a cura di D. Losurdo e R. Giacomini, Napoli 1997), in cui Valentino riprende un autore a lui caro, e lo riprende a partire dall'oggi, da un mondo che ha nei fatti, brutalmente, fatto piazza pulita del «leninismo», ma anche, finalmente, del suo «mito»; e che si apre al domani offrendogli una possibilità preziosa nella rilettura del «metodo» di Lenin. Forse non è un caso che il 'metodo' torni con insistenza in molte delle ricostruzioni di Gerratana; forse è con esso che egli ci indica quell'elemento scettico e distruttivo delle vecchie certezze che, se non assolutizzato ed elevato a vuota forma priva di pensiero, rende vivo «il pensiero marxista, quello che non muore mai» perché non nega la storia, ma al contrario si pone dentro di essa, dentro quella storia che «riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano sé stessi».
Il 14 febbraio Valentino ha compiuto ottanta anni. Auguri Valentino!
P.S. Le ultime due frasi virgolettate sono di Gramsci, rispettivamente da «La rivoluzione contro il Capitale», del 1917, e da un lettera dal carcere al figlio Delio, di data incerta ma probabilmente risalente agli ultimi anni di vita del prigioniero.