Alcuni mesi fa ci ha lasciato Valentino Gerratana, il grande studioso che ha fatto della gramsciana "filologia vivente" un impegno di cultura e di vita: il curatore dell'edizione critica dei Quaderni, che ha accompagnato la fortuna di Gramsci nel suo trasferimento da protagonista di una grande cultura e politica "nazionale-popolare" a punto di riferimento e di aggregazione per un nuovo e più maturo internazionalismo. È anche merito di Valentino Gerratana se oggi possiamo parlare di "Antonio Gramsci nel cuore del mondo".
Gerratana ci ha educato al gusto della laicità. Non è facile riassumere in poche parole che cosa questo significhi. Vorrei provare a condensarne il concetto in alcuni "valori": in primo luogo l'amore della verità, intesa come la qualità essenziale di una "ricerca", che è un fatto di vita prima che di scienza, nonché laboratorio di una lotta egemonica in funzione della "grande politica", che è poi la politica di cui siano protagonisti gli individui, sia in quanto singoli, sia in quanto masse, cioè gli individui associati. In secondo luogo la coscienza che ogni cosa ha un inizio e una fine (i classici la chiamavano "dialettica"). Ha un inizio e una fine l'arco di vita di ogni essere vivente e quindi anche di ogni essere umano, il potere, l'egemonia e l'autorità di chicchessia, i caratteri di un'epoca storica come di un sistema economico-sociale determinato, e così via. Si potrebbe anche dire: la coscienza della fine come condizione di una vita serena. Parlo di quella fine che è espressione della precarietà della vita, e che tante lotte egemoniche antilaiche cercano con ogni mezzo di esorcizzare: il consumismo capitalistico con la sua ansia di eterno presente; i tanti fondamentalismi con la pretesa della rispettiva infallibilità; la chiesa e le chiese con il tentativo di monopolizzare le anime (soprattutto dei giovani) attraverso lo scudo di una presunta difesa della vita e la demonizzazione del sesso.
Gerratana aveva, come Gramsci, un sentimento tranquillo, naturale, cioè laico, del "comunismo": quale espressione di ciò che--al di là di contraddizioni e scissioni che attraversano il genere umano--lo "accomuna". Non ci sono principi originari o definitivi, né mete ultime, né garanzie di successo, né istituzioni depositarie della verità storica o politica. Il comunismo non è né [END PAGE 26] una necessità né il fine della storia: ne è piuttosto un orizzonte, sia pur vago e lontano, capace di illuminare la lotta delle classi e delle egemonie a livello planetario.
Gerratana ha ripreso da Gramsci ciò che Gramsci aveva ripreso da Marx: una coscienza mondiale delle vicende umane. Non c'è nulla di sostanzialmente nuovo sotto il sole di un mondo ancora e sempre più inondato dalle luci e dalle ombre del capitalismo. Per riprendere le parole di uno storico bahiano recentemente scomparso, Carlos Vasconcelos, Gramsci è il messaggero di una "globalizzazione all'incontrario, o dal basso". Come erano per Gramsci l'americanismo e il fordismo, la globalizzazione non è--di per sé--né buona né cattiva: è il terreno delle lotte di egemonia storicamente più avanzate.
Il "mondo grande e terribile e complicato" è oggi più vicino all'esistenza di ogni individuo: lo attornia come una grande potenzialità ma per lo più lo sovrasta come una minaccia, che per molti diventa sempre più terribile; e gli consente di vivere l'oggettivo processo di "unificazione del genere umano", che ha assunto le forme perverse del "comunismo del capitale" (come lo chiamò Marx).
Con la globalizzazione si è aggravato e intrigato quello che Gerratana chiamava "il nodo irrisolto che incombe su tutto il pensiero politico moderno", e cioè "il rapporto tra persona naturale (singola) e persona collettiva".
I "problemi di metodo" che Gerratana ci ha proposto sono uno strumento prezioso per "rileggere Gramsci" per meglio "leggere la realtà".